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Raffaele Manari




 Raffaele Manari
Lo "Studio da Concerto sulla Salve Regina" di Raffaele Manari è uno dei brani più applauditi nelle performances artistiche dei grandi interpreti dell'organo ed appartiene a quel repertorio organistico italiano virtuosistico (a cui appartengono, tra gli altri, anche lo "Studio Sinfonico" di Bossi ed il "Concert Study n. 1" di Yon) che pone la "pedalazione organistica" in posizione di assoluta preminenza, dimostrando che gli organisti-compositori italici del primo Novecento non erano da meno (ed, anzi, talora erano superiori per ispirazione e musicalità) ai loro contemporanei d'oltralpe, oggi -purtroppo- ben più celebrati di loro.
Ma Raffaele Manari non è solo la sua "Salve Regina". Egli rappresenta, oltre che la figura di un importante organista e compositore del Novecento, anche un fondamentale punto di riferimento per tutto il mondo dell'organo italiano. Egli fu, infatti, uno degli artefici di un nuovo modo di considerare questo strumento e la sua musica in Italia sotto un punto di vista veramente completo, andandone da una parte a recuperare l'identità più genuinamente classica, perduta nel secolo precedente, e proiettandolo contemporaneamente verso un futuro che guardava lontano, verso gli ampi orizzonti europei ed internazionali che in quel periodo erano ricchi di novità tecnologiche e, contemporaneamente, iniziavano a scoprire la filologia, sia organaria che organistica, in una prospettiva che, anche se tragicamente sospesa dagli eventi bellici per quasi un decennio, a partire degli Anni Cinquanta del secolo scorso farà del recupero delle origini classiche il punto di forza per l'organo contemporaneo.
Raffaele Manari nasce a Carsoli il 21 Aprile 1887. Intraprende gli studi ecclesiastici, che conclude presso l'Università Gregoriana di Roma. Nel contempo è allievo di Remigio Renzi e nel 1914 si diploma in organo e composizione presso l'Accademia di Santa Cecilia. Nominato titolare all'organo della Basilica di S.Giovanni in Laterano nel 1920, incarico che manterrà fino alla morte, avvenuta il 21 Aprile 1933, sarà docente in organo presso la Pontificia Scuola Superiore di Musica Sacra, l'attuale Pontificio Istituto di Musica Sacra, e tra i suoi discepoli possiamo annoverare Ferruccio Vignanelli e Fernando Germani, i quali, pur percorrendo strade artistiche diverse, proseguiranno la sua opera, nel formidabile solco organistico e musicale di quella che è ormai considerata la "Scuola Romana", che ancora oggi, grazie ai loro allievi, rappresenta una realtà ben viva nel panorama organistico nazionale ed internazionale.
La produzione organistica di Manari, anche a causa della prematura scomparsa, si compone di soli quattro titoli, ma queste quattro opere sono una monumentale testimonianza non solo della sua arte compositiva, ma anche di una personalità musicale veramente eccezionale, che si fondava su una conoscenza fino ad allora mai riscontrata negli organisti italiani delle radici classiche dell'organaria a livello internazionale. Egli conosceva alla perfezione tutti i maggiori organi storici europei non solo nella loro composizione fonica, ma anche nelle particolarità costruttive più intrinseche, così come era un'attentissimo analizzatore dei grandi e moderni strumenti che venivano realizzati, soprattutto in Germania, nei primi decenni del Novecento. Manari aveva approfondito come nessun altro in Italia a quell'epoca la storia e l'evoluzione tecnico-fonica delle varie scuole organarie europee e fu forse il primo "filologo" dell'organo italiano, che se da una parte si rendeva perfettamente conto che qui da noi i tempi non erano ancora maturi per una svolta in tal senso, con la sua opera teorica e di insegnamento, testimoniata dai suoi scritti e dalle sue appassionanti lezioni, pose le prime basi per la rivalutazione della musica antica organistica italiana, seppur in un'ottica decisamente legata -e non poteva essere altrimenti- ad una situazione organaria nazionale appena uscita dai postumi della "Riforma" e dell'Adunanza Organistica di Trento, di cui lo stesso Manari fu uno dei principali artefici, ed ancora ben lontana da quei canoni di recupero filologico che si svilupperanno solo nel secondo dopoguerra. Questo "input" filologico è molto ben testimoniato dai concerti "storici" di Manari, nei quali venivano proposti, per le prime volte nel nostro panorama organistico, brani degli autori classici italiani. Uno splendido esempio ne è il programma del concerto di inaugurazione (22 Marzo 1933) del nuovo organo Mascioni del Pontificio Istituto di Musica Sacra, strumento progettato dallo stesso Manari, che vedeva in apertura due brani di Frescobaldi, la Pastorale di Pasquini e, a seguire, la Passacaglia di Bach, per proseguire poi con Franck, Karg-Elert e due opere dello stesso Manari, lo Scherzo e la Fantasia Siciliana.
Manari crebbe organisticamente nel pieno periodo della Riforma ed ebbe modo di vivere in prima persona sia gli entusiasmi e le prospettive che la accompagnarono sia le travisazioni ed esagerazioni che, come succede collateralmente ad ogni rivoluzione, ne caratterizzarono gli sviluppi. Fu in quest'ambito che egli, con vero spirito innovativo ma saldamente legato alle radici classiche nazionali, ebbe la lungimiranza dell'intuizione che nell'organo, come peraltro dovrebbe essere per ogni evoluzione degna di questo nome, non ci poteva essere futuro disgiunto da un forte legame con la tradizione. Egli approfondì e ripensò le determinazioni che erano state adottate nei congressi organistici di Torino del 1905 e di Milano del 1906, che già avevano aperto discreti spiragli in questo senso ma che non avevano trovato alcuna applicazione pratica, e dopo aver sviluppato un pensiero sintetico in merito, che espose al congresso di Roma del 1928, organizzò il Congresso (che allora fu chiamato "Adunanza Organistica") che ebbe luogo a Trento due anni dopo, nel 1930, nel corso del quale, unitamente agli altri grandi esponenti dell'organistica e dell'organaria di quel tempo (tra i quali Lunelli, Sizia, Casimiri, Sangiorgio ed altri), espose quelle tesi che verranno poi adottate sia in merito di composizione fonica che di estetica organaria e che daranno, per la prima volta dopo un secolo di confusione, un volto definito e certo all'organo italiano.
Se l'adozione di misure standardizzate per le consolles, che servivano a renderle, come si direbbe oggi, più "ergonomiche" per gli organisti, rappresentano un punto di sintesi che fino ad allora mancava, sono le definizioni della composizione fonica degli organi italiani che imprimono una svolta epocale all'estetica organaria della nostra penisola. Viste col senno di poi possono essere considerate "l'uovo di Colombo", ma in un panorama, come dicevamo prima, reso abbastanza effervescente dai postumi della Riforma, esse ponevano alcune solide basi su cui, da allora in poi, si sviluppò un interessantissimo lavoro di recupero della tradizione classica italiana e da cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, trasse origine un movimento autenticamente filologico, che tra i suoi aspetti più importanti avrà il recupero degli antichi strumenti e la costruzione di nuovi organi del tutto differenti dagli strumenti "riformati" di mezzo secolo prima.
I punti caratteristici proposti da Manari a Trento sono tanto pochi quanto chiari. La prima cosa è il recupero delle sonorità della piramide dei registri del Ripieno classico italiano (qui ancora visto al modo del "blockwerk", cioè a file riunite, con le poche eccezioni della Duodecima e della Decimaquinta), che devono rappresentare la "zoccolo duro", l'intelaiatura fondamentale dell'organo e su cui devono innestarsi, senza prevalere in alcun modo, le altre sonorità. Secondariamente si restituisce un'importanza fondamentale ai registri della famiglia dei Flauti, anch'essi considerati nella loro classicità e che possono e devono essere presenti sia nelle misure fondamentali che di mutazione. Come terzo fattore, relativamente ai registri ad ancia, essi devono essere il più possibile scelti ed utilizzati nelle loro forme e sonorità tradizionali. Il quarto, ed ultimo, "comandamento" riguarda i registri che non appartengono alla tradizione organistica italiana, cioè i registri di origine ed importazione estera: essi "possono" essere adottati per completare nel migliore dei modi la tavolozza timbrica dell'organo a condizione che non prevalgano mai nè come potenza fonica nè come numero rispetto agli altri. Oltre a questo "tetralogo", Manari propone anche un'oculata rivalorizzazione della "Voce Umana", che deve essere preferita all'Unda maris, ed elabora addirittura un "modello di organo" italiano, che partendo da una disposizione fonica ideale per un grande organo a tre tastiere e sessanta registri, per sottrazioni successive arriva all'organo minimo, con due tastiere e nove registri.
Manari ebbe modo di vedere applicate queste sue teorie negli organi che egli progettò e che vennero realizzati sotto la sua direzione, tra i quali lo splendido Tamburini 1930 del Duomo di Messina che contava 121 registri (poi distrutto durante il secondo conflitto mondiale e ricostruito, sempre da Tamburini nel 1948 su progetto di Vignanelli) e lo spettacolare Mascioni 1933 del Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma ove era docente.
Entrambi gli strumenti (e non solo questi, ma anche decine di altri alla cui progettazione Manari contribuì in modo fondamentale) furono inaugurati da concerti tenuti dallo stesso Manari, ed è importante notare come l'attività organologica di Manari fosse strettissimamente legata a quella compositiva. In effetti se la sua "Fantasia Siciliana" fu espressamente composta per l'inaugurazione dell'organo del Duomo di Messina, lo "Scherzo" fu da lui proposto in prima esecuzione assoluta durante il concerto di inaugurazione del Pontificio Istituto. E' indubbio che questa "simbiosi" artistico-organaria rappresenta un pò la "summa" della filosofia organistico-organologica di Manari, ed ascoltare le sue composizioni eseguite sugli strumenti per cui furono ideate si rivela il miglior modo per comprendere, al di là delle tante parole, nella sua piena completezza la figura di questo grande personaggio, che se non fosse stato chiamato troppo presto nelle "celesti cantorie" sarebbe senza dubbio stato ancora per molto tempo la guida illuminata che avrebbe condotto per mano l'evoluzione dell'organo italiano fino alle soglie di quella svolta radicalmente filologica che avverrà poi negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, che egli aveva già immaginato e di cui era stato il precursore quarant'anni prima.



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