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Le Voci del Mondo




Le Voci del Mondo
Autore: Robert Schneider
Edizioni Einaudi - 1996

Già da tempo avevo sentito parlare di questo libro ma solo recentemente l'amico Giulio Pedretti mi ha convinto ad acquistarlo e leggerlo. Prima di tutto, per chi ancora non l'ha letto, si tratta di un romanzo in cui i suoni in generale e quello dell'organo in particolare sono co-protagonisti. In breve la trama:
Verso la prima metà dell'Ottocento, in un piccolo e misero villaggio delle Alpi austriache viene alla luce un bimbo che ben presto si dimostra afflitto da notevoli turbe comportametali ma che nel contempo esprime una fortissima sensibilità musicale tanto da riuscire a padroneggiare la sua voce in modo assoluto e ad improvvisare all'organo monumentali costruzioni musicali senza conoscere neppure una nota di musica. La vita misera e grama del villaggio, la meschinità degli abitanti e l'indifferenza dei famigliari lo rendono ben presto una creatura solitaria ed errabonda che si isola in un mondo proprio, popolato da un universo di suoni che egli riesce quasi a considerare come esseri viventi. Innamoratosi di una sua cugina, ben presto viene travolto da una passione non corrisposta che lo porterà da uno stato di euforica contentezza ad una profonda apatia da cui lo risveglierà solamente una competizione organistica che lo vedrà trionfatore e vincitore. Risvegliatosi in lui l'amore per la cugina ma essendo questa ormai maritata ad un altro, egli decide di morire in un modo che non sveleremo per non rovinare il finale a chi dovesse ancora leggere il romanzo.
Come si vede gli ingredienti base del romanzo sono particolarmente banali e scontati. Amore e Morte si rincorrono in questo libro mentre il protagonista, Johannes Elias Alder, srotola la sua vita in mezzo alle brutture più squallide tipiche delle piccole comunità isolate dove tutti sono parenti di tutti, dove nascono più bambini subnormali che sani, dove la figura più umana la fanno le bestie, dove l'odio ed il rancore tra parenti, conoscenti e persino tra padri e figli costituiscono l'essenza della vita e della morte e dove la presenza divina deve scendere a compromessi con le peggiori pulsioni che l'uomo custodisce nel suo infimo.
Sarebbe quindi un banalissimo, ed anche abbastanza noioso, romanzo d'altri tempi, pur essendo stati scritto nel 1991 da uno scrittore di appena trent'anni, se non fosse per alcune particolarità che lo rendono differente. A prescindere dalle dottorali critiche, benevole o malevole, espresse dai più autorevoli esponenti della letteratura europea e che ora lo magnificano, ora lo stroncano, noi abbiamo trovato in questo romanzo diversi motivi di interesse tra cui una notevole ironia, sempre molto ben dissimulata, una grande capacità di cucire assieme stili narrativi diversi senza peraltro far vedere l'imbastitura, cosa che rende i "cambi di velocità" della narrazione particolarmente agevoli da sopportare, una grandiosa visione d'assieme di un periodo storico perfettamente inquadrato e fotografato nelle sue cristallizzazioni più minute; a nessuno, infatti, leggendo questo libro, verrebbe in mente che è ambientato in quell'Austria che, in quegli anni, era la più grande potenza economica e militare europea. L'Impero Austro-Ungarico, a cui peraltro il piccolo mondo del libro appartiene a pieno titolo, dimostra qui tutta la sua vacuità e la sua lontananza, una lontananza che viene sottolineata dalle condizioni di vita del villaggio, che definire miserevoli è poco.
In questo romanzo l'autore semina anche, qua e la, diverse citazioni di diverso genere tra cui alcune pregevolissime e di cui ricorderemo solo, per non annoiare il lettore, gli episodi in cui il protagonista, ancora bambino di cinque anni e completamente abbruttito alla stregua di un quadrumane, viene portentosamente attratto da una grande pietra levigata che, quasi con poteri sovrumani, gli apre in modo traumatico la conoscenza al mondo dei suoni e quello dell'immane incendio del villaggio la notte di Natale. Leggendo queste pagine le immagini che balzano agli occhi sono quelle dello scimmione di fronte al monolite in "2001 Odissea nello Spazio" e quella dell'incendio della biblioteca dell'abbazia ne "Il nome della rosa".
Altre citazioni sono sparse qua e la nella trattazione e, ora con levità, ora con truculenza, sottolineano vari momenti ed episodi. Ma la migliore caratteristica di questo romanzo è la cultura musicale dell'autore che, avendo svolto studi musicali, padroneggia la materia con competenza e congruità, purtroppo talvolta tradito dal traduttore che spesso non azzecca la corrispondenza giusta di termini specifici come, ad esempio, "registri" (per definire i suoni dell'organo). La musica, pertanto, la fa da padrone in diversi capitoli, in particolar modo in quelli dove il protagonista si misura con il suo organo, penetrando in chiesa col calar delle tenebre e trascorrendo la notte in improvvisazioni fantasmagoriche dettate dalla sua natura e dal suo amore per la cugina, ed, in particolare, in quello dove partecipa al cimento organistico, capitolo che rappresenta forse il punto più alto del romanzo e nel contempo la chiave di volta per l'evoluzione ineluttabilmente tragica di tutta la vicenda.
La competenza musicale dell'autore è rafforzata anche dalla sua conoscenza specifica dell'ambiente musicale austriaco di quel tempo. Nel libro viene infatti citato Rheinberger, che tutti conosciamo, ma anche un certo Goller, un personaggio che nel romanzo fa la parte dell'organista e Kantor che prima rimane affascinato dalle capacità musicali del protagonista tanto da farlo partecipare al cimento organistico, ma poi, temendo di vedere offuscata la sua fama, ne impedisce la nomina ad organista supplente. Ora, pochi sanno che Vinzenz Goller fu effettivamente un notevole esponente della musica organistica austriaca e fondatore di un concorso di composizione musicale che ebbe molto successo nella prima metà del 1900.
L'autore dimostra inoltre una approfondita conoscenza della cultura contadina tipica dei villaggi delle Alpi austriache e svizzere di fine secolo scorso, dove gli elementi della natura dettavano la loro legge, determinando la vita e la morte di popolazioni prigioniere di atavici retaggi di superstizione ed ignoranza e schiave di una vita durissima e miserrima, in cui le parole "pietà", "affetto" ed "amore" non avevano alcun significato. Sotto questo punto di vista questo romanzo appartiene al filone neorealista più duro, ed alcuni momenti della narrazione riescono a mettere a disagio anche il lettore più smaliziato, ma da questo paesaggio di lugubre esistenza salta fuori a poco a poco la figura luminosa del protagonista, che dapprima si stacca e si eleva, come appartenente ad altro mondo, per poi ricadere preda delle miserie umane, quasi a testimoniare l'impossibilità da parte del genere umano di affrancarsi dal suo destino.
Alla fine della lettura, sollevando gli occhi dal microscopio sotto i cui vetrini si è agitata la vita di questa piccola umanità, ci accorgiamo che non abbiamo fatto altro che guardarci allo specchio.



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